All’inizio ti dici: “Forse sono io.”
E invece no.
A volte il corpo sa prima della mente.
Il disagio arriva prima delle parole.
Ti senti stanca, irritabile, confusa.
Cominci a dubitare di te stessa. Ti svegli con un peso sul petto. Ti chiedi:
“Perché non riesco più a stare bene?”
Ecco. Quello è il primo passo.
Forse piccolo, ma fondamentale.
1. Fidati del tuo disagio
Il primo segnale che qualcosa non va non è una mail aggressiva o una riunione andata male.
È il tuo corpo. Le tue emozioni. Il tuo respiro che cambia.
Ti senti strana, prosciugata, sfinita?
Hai perso entusiasmo, lucidità, voglia?
Non ignorare quella voce che ti dice “qui non mi sento più al sicuro”.
Spesso chi è più sensibile lo sente prima.
Spesso chi ha paura di guardarsi dentro lo sente sotto forma di colpa:
“Forse non sono capace. Forse sto esagerando. Forse dovrei solo stringere i denti.”
No.
Se ti senti così, vale la pena fermarti e ascoltarti.
Anche se non sai ancora cosa sta succedendo, sappi che non sei pazza.
Il tuo disagio ha un senso. E merita rispetto.
2. Osserva senza giudicare
Dopo aver riconosciuto il tuo sentire, il secondo passo è guardare i fatti. Con onestà.
Osserva l’ambiente che ti circonda. Chiediti:
- Come si parlano le persone?
- C’è rispetto o solo paura?
- Le tue idee vengono ascoltate o ridicolizzate?
- Ti senti libera di esprimerti o hai sempre il timore di sbagliare?
Un ambiente tossico non è solo un luogo in cui si urla.
È anche un posto in cui si soffoca. In cui le persone non sorridono più.
Ecco alcuni segnali tipici:
- Sparlare, colpevolizzare, diffidare.
- Mancanza di empatia, zero feedback costruttivo.
- Silenzio emotivo, paura di esporsi, di dire “non lo so”.
- Energia bassa, cinismo, apatia. Nessuna osa più sognare.
In psicologia si parla di ambiente disfunzionale, ovvero un luogo in cui le relazioni non nutrono, ma prosciugano. Dove invece di cooperare, si compete. Dove invece di valorizzare, si sminuisce.
E se ci vivi troppo a lungo, cominci a dubitare di chi sei.
3. Scollegati da chi sei diventata lì (e strafottitene del loro giudizio)
Quando stai troppo a lungo in un ambiente tossico, qualcosa in te cambia.
Ti adatti. Ti miniaturizzi. Ti censuri.
E finisci per diventare una versione funzionante ma spenta di te stessa.
Quella che non disturba. Che non chiede. Che non osa.
Quella che sorride anche se ha un nodo in gola.
Quella che ha cominciato a credere che “forse ha davvero qualcosa che non va”.
Ma quella non sei tu.
È solo la maschera che ti sei messa per sopravvivere in un sistema che ti ha fatto credere che la tua voce era troppo, o che la tua sensibilità era un difetto.
Non basta “ritrovarti”. Devi proprio scollegarti da tutto ciò che ti ha deformata.
E sì, diciamolo chiaramente:
A un certo punto, devi imparare a strafottertene del loro giudizio.
Non perché sei arrogante.
Ma perché liberarsi vuol dire rompere le catene invisibili che ti fanno vergognare anche quando stai solo cercando di essere te stessa.
Liberarsi significa:
- smettere di farti piccola per paura di disturbare
- mandare al diavolo le regole non scritte che ti dicono cos’è “giusto” per loro
- non credere più che valga solo chi è forte, sempre presente, sempre produttiva
Ogni volta che ti viene da chiederti: “Cosa penseranno se…?”, ricordati questo:
Ti stai liberando. E la libertà dà fastidio solo a chi vive ancora in gabbia.
In psicologia questo si chiama disidentificazione:
è quando smetti di farti definire da quello che “loro” dicono di te.
E torni a decidere chi sei, cosa vuoi, e cosa meriti.
Certo che ci vuole coraggio.
Ma credimi: molto più pericoloso è restare incatenate a un’immagine che ti consuma.
Non sei lì per essere approvata.
Sei qui per essere vera.
E se ti serve un esempio, ti racconto il mio.
Io sono una persona che parte sempre col cuore aperto.
Credo nelle persone, do fiducia. E quando la do, la do davvero.
Ma se qualcuno mi tradisce — se calpesta quella fiducia che gli ho dato a mani nude — per me finisce lì.
Non c’è ritorno.
Divento netta, categorica. E lo faccio per sopravvivere.
Anni fa, avevo una collega.
Appariva come un agnellino fragile: raccontava che tutti la giudicavano, che era la sorella maggiore che si prendeva sempre tutte le colpe.
Mi ha toccato qualcosa dentro. L’ho protetta.
Mi sono spesa per lei. L’ho sostenuta, l’ho difesa. Ho cercato di alleggerirla, anche quando le sue fragilità erano evidenti.
E lei?
Mentre io la sostenevo e cercavo di proteggerla, ha iniziato lentamente a mettere in discussione la mia figura.
Non apertamente, ma in modo indiretto, insinuando dubbi sul mio operato, cercando di spostare l’attenzione dalle sue difficoltà ai miei presunti errori.
Col mio capo. E con altri colleghi.
Io ero il suo leader — e invece di confrontarsi con chi le aveva assegnato carichi insostenibili, ha preferito dirottare la pressione su di me, perché non sapeva come reggere la frustrazione.
Se fosse stata più scaltra, forse avrebbe potuto farmi davvero male.
Ma era una principiante. E nel cercare di coinvolgere gli altri, ha sbagliato modi, tempi, persone. E si è bruciata.
Io?
Io sono rimasta dritta. Forte.
E soprattutto: mi ero cercata gli alleati.
Almeno una voce sincera, una presenza lucida, che potesse dire una parola vera su di me quando io non ero presente.
Questa è la lezione: cercati almeno un alleato.
Qualcuno che ti veda. Che ti conosca. Che sappia chi sei, anche quando altri provano a riscrivere la tua storia.
Nel lavoro, come nella vita, non è sempre possibile evitare i colpi bassi.
Ma puoi proteggerti costruendo relazioni vere.
Non serve un esercito.
Basta una sola anima giusta.
4. Parla con qualcuno che ti vede davvero
Uno dei danni peggiori degli ambienti tossici è la solitudine psicologica.
Ti convincono che il problema sei tu. Ti isoli. Ti chiudi. Ti consumi.
Ma la guarigione comincia nel momento in cui trovi una voce esterna che ti dice: “No, non sei tu. Ti credo. Ti vedo.”
Parla con qualcuno. Una collega di fiducia. Un’amica che ti conosce bene. Una terapeuta.
Non per avere subito soluzioni, ma per sentirti reale di nuovo.
Perché quando qualcuno ti ascolta davvero, cominci a ricordare chi sei.
5. Prepara una via d’uscita (ma fallo con amore per te stesso)
Quando vivi in un ambiente di lavoro tossico, a un certo punto dentro di te nasce una spinta: “Devo andarmene. Basta.”
È comprensibile. È una reazione naturale al dolore.
Ma se posso dirti una cosa, da chi ha accompagnato tante persone in questo cammino e da chi, come te, ci è passata: non correre via. Fermati un attimo. Respira. Ascoltati.
Non perché non meriti di andare altrove.
Ma perché se prima non ti ritrovi, rischi di perderti anche nel posto nuovo.
Il punto di partenza sei tu
Quando tutto intorno a te è ostile, l’unico spazio sacro che ti rimane è quello interiore.
E anche se sembra fragile, piccolo, quasi inesistente — c’è. È vivo. È tuo.
È lì che ricomincia tutto.
“Ho imparato che non posso cambiare l’intero ambiente, ma posso scegliere come proteggermi. Posso ricominciare da me. Da quel piccolo atto d’amore che è ascoltarmi davvero.”
Inizia così:
- Parla a te stesso come parleresti a un amico caro.
- Ritagliati momenti di silenzio anche solo per sentire dove fa male.
- Concediti di dire “no” quando prima dicevi sempre “sì”, solo per non deludere.
- Fai spazio a piccole cose che ti fanno stare bene, anche se il contesto attorno urla il contrario.
Ogni gesto che fai per rispettarti è già un pezzo di via d’uscita.
Non devi avere già tutte le risposte
La verità è che non serve avere un piano perfetto.
Serve solo la volontà di non tradirti più.
Di non continuare a sminuirti per sopravvivere. Di non spegnerti per piacere agli altri.
Allora, invece di chiederti “come faccio ad andarmene?”, prova a chiederti:
- “Cosa ho già dentro di me che avevo dimenticato?”
- “Quali sono le cose che mi fanno sentire viva?”
- “Chi ero prima di convincermi di non valere?”
E da lì, costruisci. Un passo alla volta. Anche minuscolo. Ma vero.
Fai un corso che ti incuriosisce.
Aggiorna il CV mentre ascolti la tua musica preferita.
Parla con una persona che ti fa bene.
Scrivi su un foglio dove ti vedi fra un anno, anche se ti sembra solo un sogno.
Ogni piccolo passo è una dichiarazione d’amore verso la tua vita.
Non devi farlo da sola
A volte, ciò che ci salva è solo una persona che ci guarda e ci dice: “Io ti vedo.”
Trova quella persona. Un’amica. Un collega empatico. Una terapeuta.
Qualcuno che, nei tuoi giorni storti, ti ricordi la versione di te che tu hai smesso di vedere.
E quando ti sentirai abbastanza forte, ti accorgerai che non stai più scappando.
Ti stai scegliendo.
E questa, credimi, è una delle forme più alte di libertà.
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