Sei un capo.
Hai responsabilità, gestisci persone, ti sbatti ogni giorno per far quadrare tutto.
Ma sopra di te c’è il capo.
Uno che evita ogni decisione, ogni rischio, ogni fatica.
Uno che sembra lavorare con te, ma in realtà lavora contro di te.
E lo fa con garbo, con classe, con il sorriso di chi ti accoltella… mentre ti chiede come stai.
All’inizio non lo vedi.
Sembra uno normale. Anzi, magari ti fa pure una buona impressione.
Sorriso pacato, voce bassa, mani curate. Di quelli che annuiscono con convinzione mentre parli, come se stessi dicendo qualcosa di importante. Di quelli che usano parole come “valorizzare”, “orizzonte strategico”, “sinergia”, con la stessa disinvoltura con cui tu chiedi un caffè.
Ti sembrava sveglio.
Educato.
Un capo con cui si poteva parlare.
Illusione n.1: pensare che basti parlare, perché qualcuno capisca.
Il collega si licenzia.
Un colpo secco.
Un buco immediato nella barca, proprio sotto la linea di galleggiamento.
Respiri, analizzi, agisci.
Fai la cosa giusta: vai da lui, gli esponi con chiarezza perché bisogna pubblicare subito l’annuncio per il nuovo.
Perché tra selezione, coaching e avvio, se non si parte ora, tra tre mesi siamo nella merd@ fino al collo.
Estate, ferie, carichi di lavoro… serve tempo. Serve pianificazione. Serve, semplicemente, agire ora.
Lui ti ascolta.
Anzi: ti ascolta proprio bene.
Fa sì con la testa, con la bocca, persino con gli occhi.
“Giustissimo,” ti dice.
“Sono perfettamente d’accordo.”
E tu pensi: ok, ha capito.
Spoiler: non farà nulla.
Una settimana.
Poi due.
Il vuoto.
Lo incroci in corridoio, ti accenna una frase tipo:
“Ci sto lavorando, eh. Ho solo mille priorità.”
E tu, ingenuamente, lo capisci.
Gli dai tempo.
Perché sei razionale, paziente, empatico.
Traduzione: vulnerabile.
Intanto le settimane passano.
E tu cominci a sentire quella sensazione.
Non è ancora rabbia.
È quel sottile fastidio che si insinua tra le scapole, quando sai che qualcosa non torna, ma non sai ancora cosa.
Così, mentre gestisci il tuo lavoro, inizi anche a tappare i buchi lasciati dal collega andato via.
E inizi a farlo anche per l’altro.
E poi per il nuovo che non esiste ancora.
E arriva il momento in cui lo capisci:
ti stai lentamente disidratando nell’indifferenza altrui.
Poi succede.
L’annuncio, finalmente, viene pubblicato.
Quando ormai non serve quasi più a niente.
E mentre sei lì, che gestisci le ferie, i turni, le emergenze, il caldo, il malumore e lo stress, lui si affaccia nell’ufficio, con la stessa faccia tranquilla di sempre, e dice:
“Beh… forse non dovevi dare le ferie alla gente”
Pausa.
Silenzio.
Respiro trattenuto.
Hai presente quando senti il sangue salire piano, come un’onda lenta ma decisa?
E ti rendi conto che è arrivato il momento di capire davvero.
La verità non arriva come un fulmine. Arriva come una goccia. E poi un’altra. E poi un’altra ancora.
Ti accorgi che è sempre stato così.
Che ogni volta che c’è un problema, tu lo anticipi, lo segnali, proponi soluzioni.
E ogni volta lui fa finta di ascoltare, rimanda, ignora.
Poi, quando la bomba esplode…
È colpa tua.
Non sei stato abbastanza chiaro.
Hai concesso troppo.
Non hai previsto tutto.
E tu, per mesi – forse anni – ti sei bevuto la colpa.
Perché era detta bene. Con educazione. Con tono pacato.
Non sembrava un’accusa… sembrava una constatazione.
Ed è questo il capolavoro del manipolatore elegante: ti convince che il problema sei tu, mentre lui non ha fatto niente. Letteralmente.
La stagione del risveglio
Poi succede qualcosa.
Un giorno, non sai nemmeno bene perché, ti fermi.
Metti giù la penna.
Ti volti e ti dici, senza sussurrare:
“Aspetta un attimo… ma questo è gaslighting.”
Te lo dici così.
Chiaro. Crudo. Senza cercare attenuanti.
E da lì cambia tutto.
L’estate successiva, la scena si ripete.
Stesso film.
Solo che questa volta, tu non sei più lo stesso spettatore.
Quando ti arriva il solito commento passivo-aggressivo (“non dovevi dare ferie”), tu non reagisci.
Aspetti. Guardi.
E poi lo dici con calma:
“Ti ricordi che ti ho segnalato questa urgenza due mesi fa? Ho fatto il piano ferie in base a una situazione che TU dovevi gestire. Io ho fatto tutto. Tu no.”
Silenzio.
Ma non finisce qui.
Ora hai deciso che ogni cosa detta diventerà traccia scritta.
Ogni meeting = mail.
Ogni responsabilità sua = documento condiviso.
Ogni scusa sua = specchio in cui finalmente si vede.
Lui si irrigidisce. Ti dice: “Non è necessario girare tutto.”
E tu, con la stessa gentilezza che usi per offrire un bicchiere d’acqua, rispondi:
“È solo per chiarezza. Così siamo tutti allineati.”
E ora vedi. Tutto.
Vedi il pattern.
Vedi come cerca di scaricare, manipolare, svicolare.
Vedi quante volte ti ha fatto dubitare di te stesso.
E per la prima volta ti credi.
Ti credi davvero.
Perché certe persone non sono disorganizzate.
Sono solo bravissime a non prendersi la responsabilità delle loro azioni.
A costruirsi una reputazione su ciò che sembrano, mentre qualcun altro fa il lavoro sporco.
Epilogo (spoiler: sei tu l’eroe)
Il capo viscido non esiste.
Finché un giorno ti svegli, e scopri che esiste eccome.
E ci stai lavorando insieme.
Ma ora non ti scansi più.
Non ti incolpi più.
E soprattutto: non lasci correre più.
Hai imparato a proteggerti con i fatti.
Con le parole giuste, al momento giusto, scritte bene e mandate a chi serve.
Hai scoperto che il modo più potente per rompere un gioco tossico…
È smettere di giocarci in silenzio.
Hai mai avuto un capo così?
Hai mai dubitato di te, solo per poi renderti conto che non eri tu il problema?
Allora no, non sei esagerato.
Sei sveglio.
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